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Il Novecento


Enviado por   •  15 de Mayo de 2012  •  896 Palabras (4 Páginas)  •  478 Visitas

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IL NOVECENTO

La lezione linguistica combinata di Pascoli e di D'Annunzio (rifiutato nei temi e negli atteggiamenti superomistici) presiede alla poesia dei crepuscolari e in particolare di Guido Gozzano, che a sua volta offrì tematiche e soluzioni linguistiche poi passate a Eugenio Montale. I crepuscolari (Sergio Corazzini, Corrado Govoni, il primo Marino Moretti e altri) espressero, a conclusione dell'irrazionalismo decadente, la crisi dell'uomo e della letteratura (si veda Moretti, poeta che non ha 'nulla da dire') e rifiutarono non solo la figura del poeta-vate (nella versione moderna, D'Annunzio) ma ridussero il ruolo stesso della poesia.

La coscienza della crisi (si era alla vigilia e nel corso della prima guerra mondiale) si accompagnava peraltro a un vitalismo estremo, entusiasta della modernità, di cui massima espressione è il futurismo, quasi incarnato da Filippo Tommaso Marinetti e interpretato su registri diversi dagli ex crepuscolari Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, creativo, scanzonato e dissacrante, ma leggero come pochi.

Una cesura con l'Ottocento, a parte un senso diffuso di crisi o di smania di rifondazione (futurismo), è simbolicamente segnata dall'adozione in Italia del verso libero, che interruppe una tradizione secolare di versificazione 'non libera' e di impiego ordinato della rima. Il verso libero, che sarebbe stato dominante nel Novecento, in

Italia fu teorizzato con passione dal disordinato sperimentatore Gian Pietro Lucini e adottato inizialmente dai futuristi, con tentativi di superarlo nelle apocalittiche applicazioni delle 'parole in libertà'.

La coscienza della crisi di inizio secolo è, con diversi sviluppi, al centro dell'opera di due grandi scrittori, Luigi Pirandello e Italo Svevo. Il primo, nelle novelle, nei romanzi e nel teatro (è anche uno dei pochi grandi scrittori di teatro in Italia) indagò sull'inautenticità e sull'aggressività sulle quali si fondano i rapporti sociali tra gli uomini, che si trovano in una condizione di continuo scacco nella vita (Il fu Mattia Pascal, 1904), oltre che sulla disintegrazione di quella coscienza individuale (Uno, nessuno e centomila, 1926) che solo un secolo prima era stata al centro della rivoluzione romantica. Quanto a Svevo, anch'egli proveniente dall'esperienza del naturalismo, ma a contatto con la cultura mitteleuropea e beneficiario dell'incontro con James Joyce, trasferì l'analisi oggettiva all'interno della coscienza, scoprendo (in un rapporto ruvido con Freud) la dimensione che sta oltre la coscienza, interpretando la vita, imprevedibile e non dominabile, come malattia, e facendo, attraverso l'ironia, della coscienza di inettitudine una strategia esistenziale. L'indagine oltre le apparenze della coscienza fu così radicale che Svevo dissolse le tradizionali strutture del romanzo e trasformò la sua lingua, di matrice triestina, in uno strumento di penetrazione, nell'apparente grigiore, oltre le falsificazioni inevitabili del linguaggio.

A fronte di tante testimonianze di inquietudine e di senso di inadeguatezza e disorientamento – e nel loro contesto – stanno altre ricerche volte a fondare una nuova

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